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15 dic 2014

Una storia, donata

Homo homini lupus 
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Speranza


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Erano le sette del mattino di una giornata che si annunciava di caldo afoso. 
Aveva guidato con la massima attenzione. Aveva rinunciato a concedersi il sollievo dell’aria condizionata. Non voleva esporre il suo fisico alla inevitabile sofferenza prodotta dalla enorme differenza di temperatura che si sarebbe creata nell’abitacolo e quella che avrebbe trovata e che avrebbe dovuta subire per ore nella località, in quel dannato posto, dove era diretta. 
Nell'ampio spiazzo adibito a parcheggio era in sosta già un notevole numero di macchine. 
La fila dei visitatori-familiari- in attesa sotto il sole ormai cocente, era già lunga circa venti metri. Questo significava che avrebbe trovato circa sessanta persone giunte prima di lei, già in fila, in attesa. 
I vetri blindati dei due sportelli dietro cui sarebbero comparsi gli addetti al rilascio dei pass erano ancora chiusi. Il rilascio del pass avveniva solo dopo accuratissimo esame della documentazione necessaria e richiesta, comprovante il grado di parentela. 
Le operazioni sarebbero iniziate, come sempre, con ritardo. Si sarebbe, pertanto, protratto più a lungo il calvario dell’attesa per ottenere il permesso di essere ammessi al colloquio. Mediamente, per le ragioni esposte, l’attesa durava da un’ora e mezza alle due ore. 
E, frattanto, il sole avrebbe continuato a lanciare i suoi cocenti strali su quella massa di persone e su quanti vi si sarebbero poi aggiunti. L’afa avrebbe appesantito l’aria. 
Ogni possibile difesa contro quella tortura era impossibile. 

Elena parcheggiò la macchina. Dopo alcune ore quella scatola di latta sarebbe diventata un forno caldissimo per essere stata esposta a lungo ai raggi del sole. Non era prevista, non esisteva alcuna copertura a protezione nell'ampio spazio adibito a parcheggio. 
Chiuse la macchina. Si accertò di aver inserito tutti gli accorgimenti atti ad evitarne un eventuale furto. Poi si affrettò a raggiungere la zona occupata dai visitatori in attesa e si mise in fila. 

Ottenne il permesso di ammissione al colloquio esattamente dopo novantasette minuti. 
Era in uno stato di prostrazione totale. 
E non era ancora finita. 
L’ottenimento del pass non consentiva l’immediato, automatico ingresso. Non era la sola formalità da adempiere perché fosse consentita la entrata per raggiungere la sala colloqui con i detenuti. Occorreva attendere che da un altoparlante che emetteva suoni tanto rauchi da rendere incomprensibile ciò che annunciava, fosse chiamato il nome del detenuto. Espletata questa ulteriore ed estenuante formalità si veniva introdotti in un primo locale da dove poi, una volta completato il numero degli ammessi,i visitatori sarebbero stati indirizzati verso altra postazione di controllo per essere sottoposti ad accuratissima perquisizione. 

Dopo l’attraversamento di un percorso obbligato, sempre sotto il sole e scortati dalla
Polizia penitenziaria, i visitatori raggiungevano la sala destinata a sede dei colloqui. 
La sala era una specie di cunicolo largo non più di cinque metri. Diviso in due parti di pari larghezza  da un lungo tavolo di marmo largo un metro. Su ciascuno dei lati era stato previsto un unico sedile in muratura lungo quanto il tavolo che fungeva da divisorio. In uno dei due settori sarebbero stati collocati i detenuti, di fronte gli ammessi ai colloqui. 
I visitatori raggiungevano il lungo sedile e vi prendevano posto restando a strettissimo contatto di gomiti, ammassati l’uno all'altro. 
Poi si attendeva l’arrivo dei detenuti. 

Quell'intervallo, quei minuti che dilatavano ancora di più l’interminabile tempo dell’attesa, rendeva ancora più avvilente, drammatica quella scena. Nessuno parlava.  Forse, col silenzio, i presenti tentavano di esorcizzare la pena tremenda che li attanagliava. 

Elena, improvvisamente, si sorprese a fissare lo sguardo sull'incedere sul tavolaccio di un bambino che in precedenza aveva visto insieme ad una donna anch'ella in attesa, che, salito sul ripiano del tavolaccio che fungeva da divisorio, impettito ed orgoglioso della sua bravata, lo percorreva con fare spavaldo e divertito. Con quel suo incedere tra il divertito ed il traballante, rendeva irreale ancora di più quel posto. Era la vita che, rappresentata in quel luogo maledetto da quell'innocente, pretendeva visibilità ed il diritto, nonostante tutto. a prevalere. Forte risultava il contrasto tra l’atrocità di un sistema che sembra avere come unica finalità quella di distruggere ciò che ancora poteva essere salvato di un essere umano, e il trionfo della voglia di vivere sceneggiata dal l’innocente svago individuato da quella piccola creatura. 

Era prevista e consentita per ogni detenuto la presenza di tre congiunti. I detenuti ammessi erano dodici. In quella specie di sala colloqui vi sarebbero rimasti, per un’ora, quarantotto persone, i dodici detenuti da un lato ed i 36 congiunti dall'altra. Per potersi parlare e per poter superare il continuo vocio, le grida dei bambini, la quantità di suoni delle parole che quarantotto persone, in contemporanea, volevano, avevano necessità di scambiarsi ci si doveva alzare e accostarsi quanto più possibile. 
Era un tormento. Sembrava di essere nel peggiore dei cerchi dell’inferno dantesco. 

Finalmente, senza preavviso, si apriva la piccola porta da cui sarebbero entrati i detenuti. 
In silenzio, emaciati, inizialmente timorosi e guardinghi esploravano il luogo in cerca del volto amico dei parenti in attesa. Solo quando li avevano individuati il loro volto iniziava a rilassarsi ed i loro lineamenti riprendevano l’aspetto umano, abbandonando l’atteggiamento di animale ferito e assoggettato. Avveniva, allora, in contemporanea, una esplosione liberatoria che spingeva gli uni nelle braccia degli altri alla ricerca spasmodica di un ritrovato, seppur momentaneo, contatto reale . Contatto ostacolato e reso quanto mai faticoso dal tavolo che divideva le parti. 

Per diversi minuti quel luogo diventava una bolgia, reso tale da un improvviso,violento incontenibile esplodere di affettività mortificate, represse. 
Elena, pur fra tante difficoltà, intimorita e quasi atterrita da tanta feroce volontà di ognuno dei presenti di sopravanzare con la propria la voce degli altri, riuscì a rimanere stretta per alcuni minuti al collo del padre, sforzandosi inutilmente di frenare i singhiozzi che le squassavano il petto e mischiando le sue alle lacrime che copiose scendevano dagli occhi del genitore. 

Gli riferì del colloquio avuto dal loro legale con il Giudice di Sorveglianza che aveva fatto balenare la speranza di poter concedere, in attesa del processo, la misura alternativa degli arresti domiciliari. 
Quando ritornò alla macchina era distrutta. Le ci volle del tempo per decidersi ad abbandonare quel luogo maledetto che, seppure le aveva dato delle ore veramente tremende, era il posto dove era custodito quanto di più caro le fosse rimasto. 
Prima di partire la colpì la figura di un uomo vecchio, emaciato, con capelli e barba incolti che lentamente camminava fra la gente in attesa innalzando un cartello su cui campeggiava la scritta :HOMO HOMINI LUPUS. 
Ne rimase fortemente impressionata. 

Una volta a casa rimase distesa, ad occhi chiusi, al buio per il tempo necessario a farsi una ragione di quanto stava accadendo e per liberarsi di tutta quanta la sofferenza che quella vicenda e l’esperienza di quella mattina le avevano procurato. 
Non sapeva convincersi, non riusciva a trovare alcuna ragione che potesse aiutarla a capire, a sopportare che una società che si ritiene civile, possa distruggere, per sue manchevolezze, una vita umana. Non si può, non si dovrebbe infliggere tanta sofferenza a chi ancora non è stato giudicato colpevole e che, come sarebbe accaduto nel caso di suo padre, un giusto processo avrebbe restituito alla società ed al vivere civile fra i suoi affetti.

Alcuni mesi dopo.
Era il 23 dicembre. Quel giorno le toccava il turno pomeridiano. Lavorava alla società dei telefoni. 
Era addetta alla ricezione e dettatura telegrammi. 
Alle 18 era puntualmente al suo posto di lavoro. Aveva già risposto a diverse richieste. 
Non era stanca. Il lavoro la restituiva alla sua dimensione di persona comune, umana e le permetteva di godere la porzione di serenità che aveva saputo ritagliarsi e nella quale riusciva a rifugiarsi anche in quel periodo di tempo per lei tristissimo. 
Il telefono riprese a suonare. Rispose con la sua bella voce e pronunciando la formula di rito: Ufficio dettatura telegrammi, buona sera. Sono Elena. Mi dica. 
Una voce sottile, chiaramente di una donna di età avanzata le rispose: Buonasera signorina. Vorrei dettare un telegramma. 
Signora, mi dia il numero del suo telefono. Provvederò a richiamarla. Dopo qualche istante compose il numero che le era stato dato e disse Pronto signora. Adesso può dettare, mi dica. 

La voce dall'altro capo dettò. 
Caro Marcello, adorato figlio mio. Ti scrivo ancora adesso perché tu possa sentire in questi giorni di festa ancor più tutto l’affetto di tua madre con la speranza che possa aiutarti a trovare sollievo in queste tremende ore di un immeritato calvario. Prego con tutto il cuore Colui che invierà fra noi Suo Figlio per la salvezza dell’umanità di concederti la forza di superare e vincere queste atrocità e che presto possa essere restituito  all'affetto dei tuoi cari. Ripensa intensamente a come, in queste occasioni, eravamo soliti trascorrere le feste uniti, circondati dall'affetto di tutti. Sii forte; pensa che io sarò con te più di quanto potrei esserlo materialmente. Ti stringo forte... forte, sperando di poterti vedere più presto che sia possibile. 
Buon Natale, figlio mio. 

Mentre sotto dettatura scriveva il messaggio copiose lacrime rigavano il volto di Elena. 
Il messaggio era indirizzato ad un uomo detenuto nello stesso carcere in cui lei, mesi prima, aveva avuto il colloquio con suo padre. 
Idealmente, mentre si asciugava il viso, abbracciò forte la vecchia signora e mentalmente le augurò: Buon Natale. 
Mentre riponeva il telefono ricordò la figura dell’uomo col cartello che recava la scritta: Homo homini lupus.


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11 commenti:

  1. grazie per la commozione che ha suscitato in me questa storia.
    Non so cosa dire, di altro. Se non che la commozione, se fa riflettere, è qualcosa di estremamente positivo.Emanuela

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    1. Anche a me ha commosso, questo bel racconto. Mi auguro che Speranza scriva ancora.
      Un abbraccio, cara Emanuela, buona serata.

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  2. Sono commossa. Buona notte mia cara.

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  3. Questo brano, se ce ne fosse bisogno, mi conferma nella convinzione che l'approccio emozionale, insito in un oggetto espressivo e artistico, ha una capacità di mobilitazione delle coscienze molto più forte di qualsiasi disquisizione ragionata.
    Grazie a te per questa bella lettura e complimenti all'autrice tua amica.
    Ciao!

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    1. Ottimo, Franz, è proprio come dici. Chi sa scrivere dovrebbe farlo ogni giorno per entrare, con la sensibilità degli artisti (che anche tu hai) nella vita degli altri, migliorandola.
      Ciao Franz, buona giornata.

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  4. é un racconto ma è anche un modo giusto di parlare di giustizia.
    Ciao Sari, colgo l'occasione per farti un caro augurio di Buon Natale e felice anno

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    1. Sì. Chi scrive ha una grande responsabilità perchè ha la potenza della penna che meglio di altri strumenti fa entrare nel cuore delle cose. La giustizia deve passare dalla vera conoscenza, per essere giusta.
      Cari auguri anche a te ed ai tuoi cari. Buone feste Francesco.

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  5. Mi consola il fatto che il Buon Dio sta con ci soffre, è emarginato, è privato della libertà.
    Quand'ero giovane arrivavo persino a sperare in n mondo migliore.

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    1. Io spero ancora, in un mondo migliore ed è scoraggiante vedere come chi si sforza di costruirlo, sia tacciato da folle.
      Sì, Dio sta coi piccoli ma ama tutti e questo è un gran mistero.
      Buon Natale, Costantino, a te ed alla tua famiglia.

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  6. Speranza, nomen omen. Unica tristezza: i lupi non farebbero mai agli altri lupi quello che noi esseri umani facciamo ai nostri simili. Che ne dici Sari, il buon Dio ammetterebbe l'eutanasia per chi soffre incoercibilmente? Io dico di sì. :)

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- Grazie per il tuo commento che sarà sicuramente rispettoso.